Le strutture nascoste della legislazione tardoantica. Lingua retorica e pensiero giuridico classico. Pavia, Almo Collegio Borromeo, 17-18 marzo 2016.
 
1. L’Almo Collegio Borromeo di Pavia ha ospitato il quarto workshop del progetto Redhis – “Rediscovering the hidden structure. A new appreciation of Juristic texts and Patterns of thought in Late Antiquity”, l’ambizioso progetto di ricerca sulla persistenza del pensiero giurisprudenziale classico nella Tarda Antichità, ideato da Dario Mantovani e condotto presso l’Università di Pavia grazie al contributo dell’European Reserch Council (ERC Advanced Grant 2013). Il Collegio Borromeo aveva già ospitato, nel febbraio 2015 e nell’aprile 2016, altri due workshop del progetto, dedicati a quello che costituisce il primo asse di Redhis, ovverosia l’edizione completa dei frammenti conservati su papiro o pergamena degli scritti dei giuristi classici. In collaborazione con lo University College London, era stato invece organizzato, nel dicembre 2015, l’incontro di studio dedicato al secondo asse della ricerca, incentrato sul modo in cui il materiale giurisprudenziale classico venne reimpiegato nelle antologie e nelle opere didattiche di IV e V secolo, contribuendo in definitiva allo sviluppo di nuove forme della letteratura giuridica. E’ ora la volta del workshop dedicato alla presentazione dei parziali raggiunti lungo il terzo asse della ricerca, dedicato alla persistenza del pensiero
giurisprudenziale nella legislazione imperiale tardoantica.
I tre piani in cui si articola Redhis convergono tutti verso l’obiettivo di superare quel rigido dualismo tra leges e iura (ossia tra produzione normativa imperiale, specialmente dei successori di Diocleziano e corpo del diritto giurisprudenziale classico) in cui la storiografia moderna ha sclerotizzato l’esperienza giuridica tardoantica. Un progetto tanto ambizioso si nutre anche di una nuova forma di organizzazione del lavoro scientifico, tradottasi nell’allestimento di un team di ricercatori, di diversa formazione ed esperienza, che operano sinergicamente sotto lo stretto coordinamento del Principal Investigator. Per gli studi umanistici si tratta di un modo di fare ricerca abbastanza inedito. Quel che infatti si chiede ai membri del team non è di produrre una somma di contenuti individuali sparsi, sia pure entro lo sfondo di un comune tema generale. Piuttosto, si tratta di applicare le competenze di ciascuno (giuridiche, letterarie, papirologiche o paleografiche) a un corpus nutrito di testi, il cui tratto comune è certamente quello di riflettere direttamente o indirettamente l’elaborazione intellettuale dei giuristi del principato, ma che si caratterizzano anche, sul piano materiale, per la varietà e lo stato delle forme di trasmissione e, sul piano dei contenuti, per la varietà dei generi testuali e dei registri espressivi. Sicché, soltanto un approccio corale può ridurre il tasso di complessità che questo insieme nutrito e composito di testi presenta al lettore moderno.
 
2. Quello della multidimensionalità del testo – per venire all’oggetto specifico dell’ultimo workshop di Redhis e alla lunga introduzione scientifica con la quale Dario Mantovani ne ha aperto i lavori – è in effetti un tratto che caratterizza anche le costituzioni imperiali tardoantiche. Se infatti è vero che l’esperienza giuridica romana, nei secoli dal IV al VI venne sempre più caratterizzandosi per un fattore unificante inedito, rappresentato dall’accentramento della normazione nelle mani del principe, è vero anche che negli scrinia dove si allestivano le costituzioni imperiali finirono per raccogliersi e concentrarsi le eredità di molti mondi. Ed è precisamente a queste eredità che intende richiamarsi il suggestivo titolo del workshop, parlando di strutture nascoste della legislazione tardoantica. La principale di queste strutture è rappresentata ovviamente dai testi dei giuristi classici, la cui presenza ininterrotta, nei secoli che precedettero l’avvento di Giustiniano, è documentata da una continua trascrizione e circolazione. Utilizzati nelle scuole e nei processi, attraverso la prassi della recitatio (significativa a questo proposito l’esegesi proposta da Mantovani di Leo – Anthem. CI. 6.61.5), gli scritti dei giuristi rimangono la base imprescindibile per una applicazione uniforme del diritto privato, con la quale l’imperatore deve necessariamente confrontarsi ogniqualvolta sia richiesto un suo intervento, tanto generale, quanto legato a un singolo processo. 
La letteratura giurisprudenziale non rappresenta tuttavia il solo formante che si muove – condizionandola - alle spalle della legislazione tardoantica. Anche quando introduce nuove norme (o quando si limita a precisare i contorni del diritto vigente), l’imperatore ha bisogno di coinvolgere i destinatari del suo messaggio in un processo di fruizione e comprensione che sia il più completo possibile. Il ricorso alla cultura comune e alla comune memoria letteraria risultano strumenti importanti di questo processo, allo stesso modo della costruzione retorica del discorso legislativo imperiale, che sovente mostra il bisogno di giustificare in termini persuasivi le proprie ragioni e i propri obiettivi. 
E’ dunque lungo i tre assi del reimpiego - nella legislazione di IV e V secolo - della giurisprudenza classica, del patrimonio letterario e della tradizione retorica, che si snoda il programma ideato da Dario Mantovani per il quarto workshop di Redhis. Concepite come un incontro tra specialisti di discipline diverse, le due giornate di studio ospitate dal Collegio Borromeo hanno visto giuristi, filologi e storici alternare le loro relazioni sotto le prestigiose presidenze di Werner Eck (Universität zu Köln) e di Bernardo Santalucia (Università di Firenze).
 
3. Ridefinire la misura in cui la legislazione imperiale si servì del patrimonio custodito nei libri della giurisprudenza classica rappresenta, come si è detto, uno dei tre obiettivi specifici del progetto Redhis. Logico dunque che a presentare un primo bilancio del metodo praticato e dei risultati fin qui ottenuti siano stati gli studiosi specificamente applicati a questa tranche della ricerca, la quale peraltro, fin dall’avvio del progetto, ha potuto avvalersi della collaborazione di uno specialista del diritto tardoantico, come Salvatore Puliatti (Università di Parma). Proprio Puliatti, nell’aprire la prima sessione dei lavori del workshop, ha chiarito preliminarmente che l’eredità della giurisprudenza classica si può palesare in due forme: direttamente, quando il testo di una costituzione lasci emergere una conoscenza diretta delle regole del ius antiquum; indirettamente, quando l’estensore della costituzione mostri di applicare a ‘nuove’ regole, di formazione imperiale, tecniche argomentative mutuate dall’armamentario giurisprudenziale. Lo studioso si è poi concentrato sulla prima delle due forme, mostrando come la padronanza del diritto classico non si manifesta soltanto nel richiamo adesivo a una data opinione giurisprudenziale (per es. Iust. CI. 4.5.10). Più significativi ancora – perché pressoché ignorati finora dalla storiografia – sono i casi in cui le analisi delle cancellerie riflettono una esatta valutazione degli istituti, delle definizioni e delle discipline classiche (per es. Zen. CI. 6.49.6). Così come di estremo rilievo è il fatto che gli imperatori, anche quando avvertono l’esigenza di allontanarsi – in modo più o meno radicale – da una disciplina ereditata dall’età del principato, sempre diano comunque conto delle ragioni e della misura dello strappo (ess. in Valentin. – Val. CTh. 5.1.2, Iust. CI. 6.28.4 pr.-2): si tratta di un segno nitidissimo del fatto che per i contemporanei era il complesso del ius antiquum a definire la trama di fondo del diritto vigente.
Sulla seconda forma di reimpiego del classico – quella cioè derivante dalla padronanza delle tecniche argomentative elaborate dalla giurisprudenza - si sono invece concentrati gli interventi di Francesco Bono (Università di Pavia – Redhis project) e di Marco Gardini (Università di Parma). La prima relazione – attraverso una serie di exempla tratti dalla legislazione privatistica di Zenone, scelta come focus anche per segnalare che quella per i classici non fu un’attenzione che rinacque per incanto con Giustiniano - ha mostrato come i funzionari di Zenone avessero una tale confidenza con le categorie giurisprudenziali da permettersi di gestirle sia con tocchi di originalità (per es. quanto ai genera actionum di CI. 7.37.2) sia per costruire nuovi istituti; esemplare, in questo secondo senso, il ricorso alle tecniche definitorie per delineare nuove figure contrattuali e gestire per questa via (antica) il problema dell’accollo del rischio (CI. 4.66.1). Sulla padronanza con le categorie processuali si è invece soffermato Marco Gardini, mostrando come anche su un tema dall’estremo tecnicismo, quale è quello del rapporto di pregiudizialità tra giudizio civile e criminale, la cancelleria di Valente, Graziano e Valentiniano (CTh. 9.20.1) abbia saputo elaborare un proprio discorso, denso di impliciti richiami alla elaborazione giurisprudenziale dei secoli precedenti.
 
4. Anche una seconda struttura nascosta della legislazione imperiale – quella rappresentata dall’eredità dell’ars rhetorica – è stata riportata alla luce da due punti di vista complementari. Nel corso della seconda sessione del workshop, alla retorica si è guardato infatti sia come tecnica della persuasione sia come arte del discorso (non necessariamente persuasivo). Nella prima prospettiva l’attenzione si è perciò stretta intorno alle strategie adottate negli scrinia imperiali per incorniciare un dato intervento legislativo entro una trama argomentativa; nella seconda prospettiva si è guardato alle ripercussioni che il rispetto della regole della buona comunicazione ha finito per avere sulla formulazione stessa degli enunciati normativi. 
Sul primo versante si è concentrata innanzitutto la relazione di Brunella Moroni (Università di Milano). La studiosa ha mostrato come al discorso legislativo tardoantico non fosse affatto estraneo quell’elemento così caratteristico del pathos retorico che era la mozione degli affetti. Quando erano la passione e i sentimenti del principe, che conveniva richiamare nelle costituzioni, i riferimenti potevano andare dal polo dell’ira imperiale (per es. Valent. Nov. 4) fino al polo opposto dell’amor rei publicae. Nel primo caso i funzionari della cancelleria imperiale non facevano altro che servirsi dei precetti retorici relativi al locus indignationis (per es. Const. CTh. 9.12.1 dove si possono cogliere gli echi della raccomandazione di Cic. inv. 1.103 di porre sotto gli occhi dell’interlocutore ciò che suscita una generale riprovazione, per quanto inusitato ed efferato). Al capo opposto, il richiamo all’amor rei publicae (per es. Theod. Nov. 17), coordinato con i richiami alla clementia o alla pietas, concorreva a definire l’immagine del princeps civilis, il sovrano coronato da una serie articolata di virtutes, il richiamo alle quali, complessivo o selettivo che fosse, serviva per autolegittimare l’intervento normativo imperiale. Con specifico riguardo alla pietas, questo secondo aspetto del tema è stato poi ulteriormente approfondito da Michel Christol (Université de Paris II). Lo studioso francese, dopo aver illustrato le radici augustee della pietas imperiale e i suoi enigmatici rapporti con la clementia, ha mostrato la persistenza del suo impiego in chiave retorica nella legislazione novellare di Valentiniano (in part. Nov. 2 e 15).
Sul versante infine dell’impronta lasciata dalla retorica classica come arte di costruzione del discorso, Jean-Michel Carrié (EHESS Paris) ha mostrato in che misura la forma degli enunciati normativi potesse essere condizionata, fin quasi a snaturarsi, dal genere testuale adottato dall’imperatore. L’esempio portato è stato quello del genere epistolare, applicato al corpus delle lettere di Giuliano l’Apostata volte a comunicare a singoli, piuttosto che a singole comunità, l’attribuzione di un qualche beneficium. Lo studioso ha messo in luce le peculiarità del corpus e le difficoltà che esso pone all’interprete moderno al fine di determinare se la forma epistolare del singolo provvedimento coincida con la forma originaria dello stesso o non ne costituisca piuttosto una rielaborazione letteraria; al tempo stesso è stato espresso anche un giustificato scetticismo sul tentativo di distinguere le epistulae redatte personalmente da Giuliano, piuttosto che dai suoi funzionari, sulla base di criteri meramente stilistici (nella specie: enfasi vs. sobrietà).
 
5. Agli ultimi relatori il compito di portare alla luce la terza struttura nascosta della legislazione tardoantica, rappresentata dalla cultura letteraria condivisa tra il personale delle cancellerie e il pubblico dei lettori delle costituzioni imperiali. Isabella Gualandri (Università di Milano) ha declinato il tema lungo l’asse della obscuritas, cominciando col rilevare un apparente paradosso. Se infatti i classici presentavano l’oscurità come un vizio capitale del discorso legislativo (per es. Quint. 2.3.47), le leges postclassiche esibiscono scientemente una prosa prolissa, che pregiudica l’immediatezza del discorso, al punto che la compilazione teodosiana sarà costretta a giustificarsi anche con la necessità d’intervenire e d’incidere sull’oscurità delle leges raccolte (CTh. 1.1.5-6). Sennonché – paradosso nel paradosso – le parole con cui Teodosio II annuncia l’operazione (Nov. Theodos. 1) si presentano come un concentrato di tutti quegli elementi dai quali la precettistica retorica raccomandava di rifuggire per evitare l’obscuritas in verbis (e cioè la lunghezza eccessiva dei periodi, la ricerca di strutture sintattiche non lineari, l’insistere su metafore e figure, etc.). Secondo Gualandri, questa tensione irrisolta delle leges tardoantiche riflette un preciso tratto della cultura del tempo, che predilige il testo oscuro perché lo reputa più prezioso, sia per una sorta di gioco dialettico con il lettore, dal quale si pretende – convinti di appagarlo - che collabori alla ricezione del testo, sia per l’influsso del pensiero cristiano (cfr. per es. Aug. de doctr. Christ. 2.6.7), per il quale la ricerca della verità del verbo divino (ad imitazione del quale si propone il verbo imperiale) è una fatica alla quale l’uomo è sottoposto da Dio.
Infine, ad Alberto Canobbio ed Elisa Romano (entrambi dell’Università di Pavia) il compito di chiudere i lavori del workshop, mostrando un primo bilancio dei risultati che si possono raggiungere incidendo la legislazione imperiale con i ferri della critica letteraria. Il campione studiato – anche nell’ambito di un'altra ricerca multidisciplinare che ha preso corpo presso l’ateneo pavese sulla ‘lingua del diritto’ – è quello della piccola antologia Sirmondiana, scelta per il fatto di raccogliere costituzioni che non subirono i vistosi tagli operati dai compilatori del Teodosiano. Su un corpus circoscritto di testi, che promettono dunque di essere piuttosto vicini all’originale elaborato negli scrinia imperiali, i due studiosi hanno messo a fuoco una ricca serie di elementi strutturali, sintattici e lessicali del discorso legislativo. E’ stato così possibile evidenziare che il personale imperiale non si servì in modo acritico dell’eredità del passato, ma la adattò funzionalmente alle necessità del discorso legislativo (necessità valutate in termini più generali da Romano, e da Canobbio con riferimento specifico al regime della episcopalis audientia, oggetto della constitutio Sirmondiana I). Agli adattamenti in questione non fu poi estranea una certa intersezione di generi testuali, particolarmente evidente guardando a quello che si direbbe essere stato l’ordo canonico delle costituzioni imperiali (con un exordium dedicato all’occasio legis e dunque di genere essenzialmente narrativo-argomentativo, e un epilogo in cui prevalgono le esigenze di assicurare la pubblicazione e la diffusione del provvedimento, comunicate al destinatario del discorso imperiale secondo i dettami del genere epistolare). 
Anche attraverso quest’ultimo esempio la contaminazione dei generi – e delle strutture nascoste che ne costituiscono la trasfigurazione - si è dunque riproposta come la vera cifra del quarto workshop di Redhis, confermando al tempo stesso la bontà della formula alla base dell’incontro di studio, che ha saputo trovare un indubbio punto di forza nel convergere di competenze disciplinari e stili di ricerca diversi. 
 
 
Luigi Pellecchi
(Università di Pavia)